Rileggendo quanto scritto un anno fa a proposito delle prospettive per il 2021 sembra che lo scenario più vicino a quanto effettivamente verificatosi nella realtà sia stato quello che definivamo come "uscita progressiva dalla crisi sanitaria", che prevedeva un raggiungimento solo parziale dell'obiettivo finale di "immunità di gregge" promesso inizialmente dai vaccini, con il ricorso a periodiche chiusure per tenere sotto controllo il contagio.
Come a suo tempo ipotizzato, lo scenario intermedio (gli altri due erano rapida soluzione e prosecuzione della crisi sanitaria) è stato apprezzato dai mercati, che hanno potuto mantenere vive le aspettative di miglioramento dell'economia continuando a beneficiare di politiche monetarie e fiscali espansive.
Guardando al solo ambito economico siamo stati forse più vicini allo scenario ottimistico (rapida soluzione della crisi) con una crescita economica superiore al 5% accompagnata da una ripresa delle spinte inflazionistiche che si sono intensificate nella seconda parte dell'anno; quello che è mancato, rispetto a quanto ipotizzato a tavolino, è stato un cambiamento della politica monetaria delle banche centrali in senso più restrittivo.
Questo disallineamento tra comportamento ideale ed effettivo dei responsabili della politica monetaria rischia di essere una delle questioni chiave che caratterizzerà il 2022: l'inflazione è salita in misura considerevole in tutto il mondo ma le banche centrali stanno ancora promuovendo politiche espansive, con gli acquisti netti di titoli sui mercati che, seppure a ritmo ridotto, continueranno anche nei primi mesi del nuovo anno.
Il concetto di "inflazione transitoria", con cui si è motivato, nel corso del 2021, l'attendismo delle Banche Centrali, si è progressivamente indebolito, consegnando al 2022 un dilemma di non facile soluzione: anticipare la stretta monetaria, con il rischio di frenare la ripresa economica, o proseguire con molta gradualità nella riduzione degli stimoli, alimentando ulteriormente la crescita dei prezzi?
Finora si è scelto quello che a molti commentatori è apparso come il male minore, anche nell'ottica di una diluizione dei debiti accumulati, da Stati e imprese durante la crisi del 2020: un'inflazione superiore al livello ottimale del 2% consentirebbe una più rapida diminuzione del debito in termini reali ma il rischio di perdere il controllo delle dinamiche dei prezzi è aumentato, anche in considerazione del fatto che se, inizialmente, lo scoppio della pandemia ha avuto effetti deflazionistici (in primis con il crollo dei prezzi delle materie prime) nel medio-lungo periodo l'effetto si è trasformato in inflazionistico, con la crisi delle catene di fornitura globali, una parziale de-globalizzazione e, come effetto finale, maggiori costi per le imprese. Se venisse a mancare quella che negli ultimi anni è stata la più potente arma a favore del contenimento dei prezzi (la concorrenza di prodotti a basso costo dei paesi emergenti) si correrebbe il rischio di dover pagare contemporaneamente il conto di inflazione e rallentamento dell'economia: un qualcosa di simile alla stagflazione anni 70 che risulterebbe sicuramente sgradito ai mercati.
Si consideri poi che le tematiche inflazionistiche potrebbero essere alimentate anche da importanti questioni geopolitiche che periodicamente si ripresentano:
- relativamente al costo delle materie prime e dell'energia una eventuale crisi in Ucraina potrebbe avere ricadute sulle forniture di gas dalla Russia ai Paesi dell'Europa occidentale;
- le problematiche dovute alle interruzioni sulle catene di fornitura dei componenti elettronici potrebbero esplodere nel caso dell'acuirsi delle rivendicazioni cinesi su Taiwan (uno dei maggiori produttori mondiali di chip).
Fortunatamente non ci sono solo note pessimistiche: l'inflazione misurata attualmente riflette il confronto con un periodo in cui i prezzi dei prodotti e delle materie prime erano particolarmente depressi (seconda ondata della pandemia) e, anche in caso di semplice stabilizzazione sui livelli attuali, la matematica giocherebbe a favore di una rapida riduzione del tasso di crescita dei prezzi. Inoltre una parziale de-globalizzazione, se pensata in un'ottica di reingegnerizzazione della logistica e del commercio globali, non significherebbe necessariamente un incremento dei costi per le imprese mentre potrebbe avere effetti benefici in termini occupazionali, grazie al cosiddetto reshoring di alcune attività chiave.
Per finire, se nel corso del 2022 le politiche monetarie esauriranno progressivamente gli stimoli espansivi, quelle fiscali ed, in particolar modo, gli investimenti pubblici legati al PNRR resteranno molto forti, trasformando il profilo della spesa da assistenzialistico (sussidi per calmierare gli effetti delle chiusure) ad orientato ad una maggiore produttività e modernizzazione delle infrastrutture.
Tenendo conto dei vari elementi in gioco e del fatto che i mercati azionari sono sui massimi di sempre il 2022 non appare un anno facile: ci sarà molto lavoro da fare per disinnescare le spinte inflazionistiche cercando di preservare la crescita (da questo punto di vista lavorare sulle aspettative degli operatori economici potrebbe essere la scelta vincente) iniziando una normalizzazione delle politiche monetarie non troppo indigesta per gli asset finanziari; al tempo stesso, per gli investitori, la selezione di titoli con buoni fondamentali sarà determinante per proteggere il valore dei propri portafogli.
Un augurio a tutti i nostri lettori per un prospero 2022
C.G.